Santo Stefano: come liberare un carcere
L’ex carcere borbonico di Santo Stefano è un monstrum, una cosa meravigliosa uscita dalla fantasia di un re reazionario e un architetto progressista. Uno strano sogno di fine Settecento, in cui si agitano pulsioni umanitarie e punitive, principi illuministi e sanfedisti, utilitarismo e neoclassicismo. Un luogo di bellezza spirituale, dove le idee apollinee di rieducazione e redenzione hanno fatto i conti con la brutalità dei fatti umani.
Il carcere appare come un’allucinazione sulla cima di Santo Stefano, uno scoglio di neanche ventotto ettari che guarda l’isola di Ventotene. Nel 1795 Ferdinando IV di Borbone ne affidò il progetto a un discepolo di Vanvitelli, Francesco Carpi, che lo realizzò secondo i principi del carcere ideale appena teorizzati da Jeremy Bentham: una struttura circolare dove un solo sorvegliante, al centro, può vedere tutti i detenuti.
È il Panopticon, metafora psicopoliziesca di un potere onnisciente, dove l’astensione dal male dovrebbe sorgere dalla consapevolezza di essere costantemente osservati. Algebra morale inglese, di cui Carpi fornisce un’interpretazione borbonica: un anfiteatro a matroneo la cui pianta ricalca quella del teatro San Carlo di Napoli; e al centro del palcoscenico, invece della torre di sorveglianza, una cappella: non un secondino, ma Dio osserva i detenuti. E da ogni parte, il mare.